In punta di piedi

Vincenzo è stato sempre una persona speciale nella sua normalità (nel significato più semplice e comune di questi termini). A prima vista, infatti, era un ragazzo come tanti che non parlava molto e che preferiva ascoltare.

Forse lo faceva per conoscere le persone con cui aveva a che fare, affidando al tempo e alle esperienze comuni la nascita delle amicizie che poi coltivava (e continua a coltivare) anche se lontano nel tempo e nello spazio.

Così l’ho conosciuto io, in parrocchia, la nostra amata parrocchia Sant’Agostino, per la preparazione dei primi campiscuola per i bambini del catechismo voluti da don Raffaele Tatulli.

Sguardo diretto e sincero, sorriso sempre stampato sul volto, pronto al dialogo, ma anche alla battuta e allo scherzo (don Raffaele ne sa ben qualcosa!): ben presto ho capito che di Vincenzo mi potevo fidare e che con lui andavo sul sicuro.

Piano piano ho conosciuto poi la sua storia e gli ho voluto subito un gran bene perché…non c’è un perché…Vincenzo si fa voler bene da tutti coloro che entrano nella sua vita, senza clamore, senza gesti eclatanti, senza proclami o troppe parole. Volergli bene è inevitabile. Bastava un messaggio nel momento del bisogno e lui era lì: nei momenti allegri dei ritrovi dopo i campiscuola o nel momento di sconforto.

Avrei tanto voluto (egoisticamente) che un giorno diventasse un parroco della nostra diocesi, ma il Signore aveva per lui altri progetti: ieri è stato nominato Vescovo e Nunzio Apostolico in Paraguay.

Il Cardinale Parolin, durante l’omelia, ha pronunciato delle spendide parole che hanno emozionato tutti i presenti e soprattutto noi che lo conosciamo da tanto:

“….Rimanendo in lui si viene spinti ad andare e sarà così anche per te in quanto Nunzio Apostolico. Nunzio significa messaggero ma ogni messaggio che porti è connotato dall’aggettivo Apostolico. Non è quindi anzitutto di cose da fare o da non fare, da dire o da non dire, ma di apostolato da vivere, di vita da spendere per la Chiesa e per il Paese in cui ti troverai. In essi non sarai mai straniero, non solo per la cospicua presenza di cattolici ma soprattutto perché quel popolo, come ogni popolo, è abitato e amato da Dio che ad esso ti manda in quanto l’apostolo per definizione è proprio colui che è mandato. Lo farai certamente nel tuo stile entrando in punta di piedi in una realtà che sai precederti ed eccederti…”.

Ed è proprio vero: Vincenzo entra nella vita di tutti quelli che lo incontrano in punta di piedi e ci resta con discrezione e una attenzione per ognuno, senza distinzione.

Ti siamo grati, Vincenzo, per le emozioni che ci hai donato tutti questi anni e perché hai voluto sempre essere accompagnato dalla tua comunità in ogni passo importante della tua vita, condividendo le celebrazioni, le nomine, le esperienze in Zimbabwe, in Nicaragua e in Argentina. Questa volta hai fatto un regalo enorme alla nostra parrocchia: con la tua nomina a Vescovo ci hai riuniti tutti attorno a te, vicini e lontani, ci hai fatto sentire di nuovo orgogliosi della nostra comunità, noi che veniamo da anni di dispiaceri e divisioni, di allontanamenti e di solitudine, ci hai raccolti da tutte le città in cui abitiamo, bambini, giovani, adulti e anziani. Tutti felici di prendere quel pullman a mezzanotte e stare lì assieme a te, a pregare con te e per te.

Ci hai riempiti di orgoglio, ma di un sano orgoglio, quello che ci rende felici di conoscerti, di pensarti nostro amico, di sentirci un po’ come quando nella Bibbia si dice:”Da Nazaret può venire qualcosa di buono?”. Sì, anche dalla nostra comunità è venuto qualcosa di buono e con te abbiamo la speranza che ancora qualcosa di buono può nascere, che possiamo superare le difficoltà, che fino a quando qualcuno continua a pronunciare quel “Sì, lo voglio” che ieri hai ripetuto tante volte, ci potrà sempre essere speranza di avere persone migliori, per un mondo migliore.

Auguri, Vincenzo, per la tua missione in Paraguay. Noi ti accompagneremo con la nostra preghiera con la certezza che tu non ci risparmierai la tua. Ti vogliamo bene.

Le campane del Montenegro

Quando ascolto questo racconto mi emoziono sempre, forse perché anche chi lo racconta lo fa con tanta emozione.

E’ una storia dell’Albania ai tempi del comunismo quando il “compagno” Enver Hoxha decise che l’albanese doveva essere ateo per legge. Vennero distrutti quindi tutti i simboli religiosi e anche le chiese furono trasformate in palestre, stalle, granai, sedi di cooperative.

Si lavorava tutti i giorni, anche la domenica, anzi, la domenica si lavorava di più per non dare il tempo agli “ex-cristiani” di ricordare la messa.

In una di quelle domeniche, alcuni lavoratori della Zadrima (la regione pianeggiante dove i nostri frati cappuccini adesso vivono) vennero mandati a lavorare ai confini con il Montenegro in modo che non avessero avuto il tempo per preparare un pranzo diverso seppur con le povere e semplici cose che avevano in casa.

Erano lì, dunque, a lavorare quando ad un certo punto sentirono in lontananza un suono tanto insolito quanto dolce: erano le campane del Montenegro che suonavano a festa e annunciavano la resurrezione di Cristo.

Quella non era una domenica come le altre, ma era la domenica di Pasqua!

Chi racconta, a questo punto appare con gli occhi lucidi perché quel giorno il suono delle campane toccò le corde del cuore di quegli operai: ricordi dolcissimi riaffiorarono nella loro memoria e molti non seppero trattenere le lacrime.

Lacrime che riapparvero copiose quando, dopo la caduta del regime, si tornò a celebrare la messa.

Che non si pensi, però, che oggi sia facile, in Albania, guidare le comunità cristiane. Gli uomini di allora sono anziani e i loro figli sono cresciuti senza Dio; oggi hanno spesso solo il sogno di partire perché inseguono un dio ben diverso da quello per cui i loro genitori e nonni hanno pianto, il dio denaro.

Ed in fondo non sono tanto diversi dai nostri giovani indifferenti alle tante campane che squillano ogni giorno e da noi adulti che spesso non accogliamo il richiamo di chi ci invita a fare e dare di più e a non limitarci a richiedere i crocifissi nelle scuole o a partecipare alle processioni.

Nella città albanese di Scutari, oltre alle chiese ci sono molte moschee da cui la voce dell’imam invita i fedeli alla preghiera ogni tre ore.

Campanili e minareti si danno la mano e ci chiedono di essere fratelli.

Io non voglio restare indifferente a questo richiamo ed è forse anche per questo che ogni anno torno in questa terra che mi fa dire di nuovo “sì” al Signore.

Una pedana sul mare

Sant’Antonio, Carcere, Rotonda, Monaci alti, Monaci bassi, Piramidi, Trincea, Torretta, Everest, Monte Bianco.

No, non sto scrivendo una poesia futurista. Questi sono solo alcuni dei nomi con cui nel mio paese vengono chiamate delle “spiagge” dove in estate si va a fare il bagno. Sono tutte più o meno raggiungibili a piedi o in bici, perché Giovinazzo ha la bella caratteristica di avere un mare pulito e accessibile proprio in città.

Io e molti miei coetanei abbiamo imparato a nuotare durante la fanciullezza proprio in queste spiagge. Ognuno di noi ha un suo posto del cuore e io, personalmente, conosco ancora oggi molti segreti di ognuna delle località che ho citato: ci so camminare a piedi nudi, conosco a memoria la posizione delle buche, le zone scivolose, i posti in cui ci si può tuffare tranquillamente, quelli da cui risalire quando il mare è un po’ mosso, le zone in cui arriva più vento e quelle dove andare la sera.

Ma tra poco, una di queste spiagge non sarà più accessibile a tutti. La località della Rotonda, infatti, è stata data in concessione per creare una spiaggia libera con servizi. Concretamente, tutta la zona frequentata dai cittadini in estate, è stata ricoperta da una grandissima pedana in legno dove saranno posti ombrelloni e sdraio a pagamento.

Tutto viene giustificato dalla necessità di offrire opportunità a turisti e imprenditori come richiede la vocazione della nostra cittadina.

Non voglio entrare nei particolari tecnici e in quelli di opportunità della scelta della location perché se ne sono dette già tante di cose.

Invece il mio è un pensiero nostalgico: penso infatti alle giovani generazioni che non avranno la fortuna di poter vivere l’adolescenza e la giovinezza che abbiamo avuto noi, che ho avuto io.

Noi siamo cresciuti su quegli scogli: si raccontano ancora gare leggendarie di tuffi sfidando la corrente e il risucchio del “vavataun”, salvataggi con il mare agitato, serate con la chitarra trascorse al caldo dell’estate, gli spari della Madonna visti proprio seduti lì giù, le prime nuotate, i piedi con le spine dei ricci, i canotti affondati, la corsa a nuoto lontano dalle meduse, i fondi, l’acqua bevuta fino a star male.

Siamo cresciuti su quegli scogli.

Siamo diventati grandi anche grazie a quella libertà che ci veniva data dalle nostre famiglie di sperimentare cosa voleva dire andare al mare da soli, cosa vuol dire camminare a piedi nudi sulle rocce a volte pungenti; abbiamo imparato da soli e in compagnia degli amici cosa si poteva fare e cosa no, abbiamo conosciuto i nostri limiti, abbiamo imparato ad amare il mare e il sole della nostra terra, ad asciugarci sugli asciugamani sotto il sole senza fare le docce, ad amare il contatto con la roccia e il suono del mare che sbatteva sullo scoglio.

E abbiamo imparato ad amare Giovinazzo che ci permetteva di sperimentare quella libertà e si lasciava conoscere e scoprire nei suoi angoli più belli.

Ai nostri ragazzi invece regaleremo una città all’avanguardia, una città con pedane, ombrelloni e sdraio a pagamento (per chi potrà permetterseli). Una città sempre più per i turisti che vengono a visitarla e sempre meno per i giovinazzesi.

E penso anche alle persone più avanti con l’età che amavano il loro posto del cuore e dovranno cambiare abitudine, spostandosi più lontano con le auto o rinunciando a quel momento di relax con amici e amiche di altri tempi.

Certo, la nostalgia e il romanticismo non pagano e non interessano più a nessuno. Ma a me, a cui piace un modello di vita slow, la mia città che diventa sempre più una città a misura di profitto, piacerà sempre meno.

Apri gli occhi

Ti penso sempre.

Anche se sembra che stia facendo tutt’altro, che sia piena di pensieri, che abbia la testa altrove, tra tutti i pensieri, tra tutte le cose da fare, tra tutti i sogni ad occhi aperti, ci sei sempre tu.

Sono tre anni che non sei con me. E più passa il tempo, più i ricordi restano, soprattutto per me che vivo nella casa in cui abbiamo vissuto insieme, la nostra vita.

Ogni tanto mi passano nella mente immagini in cui tu dici qualcosa, fai qualcosa, sposti qualcosa.

E poi quella risata, bellissima, contagiosa.

Rimanevi alzata fino a tardi per vedere la tv; spesso ti sentivo ridere mentre io ero già a letto. A volte ridevi, altre volte commentavi i documentari da sola.

Quella voce mi sta sempre intorno: a volte ripete i tuoi consigli, i tuoi proverbi, i tuoi modi di dire. E spesso li ripeto anche io.

Ricordo di più i momenti in cui non avevi ancora il tumore. Specialmente i momenti che mi fanno ridere ancora a distanza di tanti anni. Ma ricordo in fondo tutto di te: i tuoi vestiti, le tue mani, i tuoi movimenti, i tuoi sguardi a volte severi, i tuoi capelli. Ti rivedo con il carretto quando uscivi per fare la spesa e ti fermavi a parlare con le signore dei pianterreno o con i vicini di casa.

Ricordo le cose che preparavi da mangiare e le volte che ti lamentavi perché non mi piaceva niente.

Ricordo poi i tuoi occhi che mi guardavano negli ultimi mesi. Mi volevi dire di tutto e non riuscivi con le parole.

Sei stata fortissima e bravissima. Quella volta in cui mi hai fatto il gesto che voleva dire: io devo morire.

Non so come ho fatto a resistere e a dirti: mamma, non lo sappiamo quando succederà. Per ora stiamo insieme, cerchiamo di stare bene. Stai qui, a casa tua, con i tuoi figli. Stiamo insieme.

Poi andavo a lavorare e per strada pensavo: povera mamma, cosa farei se fossi lei, vorrei fare di tutto. Ma lei non può fare niente.

Sei stata bravissima fino alla fine.

Quella notte, quella notte di 3 anni fa esatti, ho potuto dormire con te, respiravi regolarmente ma ormai era un giorno che non eri cosciente.

Mi sono messa vicina a te, nel letto, ho preso il tuo braccio, quello che non muovevi più e l’ho abbracciato. Volevo starti vicina fino alla fine.

Non volevo che fossi sola in quel momento. E nella notte, ad un certo punto, ho sentito quel respiro più forte degli altri e poi basta. Più niente.

Ti ho chiamata due volte. Anche solo per sentire questa parola ad alta voce un’altra volta.

Da allora sei un ricordo a volte allegro, a volte triste e amaro. Ma anche nei momenti di difficoltà penso a te e alla tua forza, alla tua fierezza, al tuo coraggio. Non posso essere da meno del tuo esempio. E so che tu mi guardi sempre e mi dici ancora “apri gli occhi” ogni volta che vado via di casa.

La Casa delle Attese

Non so proprio come cominciare a raccontare questa piccola storia. Ci penso da giorni, ma le emozioni, i pensieri, i ricordi, le immagini sono così tante che non riesco ancora a mettere in ordine tutto.

Eppure, non è difficile, anzi, questa storia è fatta di poche persone che sono però capaci di scombussolarti i pensieri e i sentimenti in pochi istanti.

Voglio infatti raccontare che oggi sono 10 anni che esiste a Laç Vau Dejes, in Albania, centro della diocesi di Sapa, una Casa della Carità.

Sono 10 anni che due suore (che si sono alternate negli anni) e tanti volontari che si susseguono nei giorni o nei mesi, vivono in quella casa dove ospitano persone malate o sole che le famiglie non riescono più a tenere con sé.

Quando si entra in questa casa si ascolta l’accento di Reggio Emilia (originario o acquisito), si vedono tanti sorrisi nonostante tutto, si entra in un turbine di cose da fare sin dal mattino, si trova sempre e comunque il tempo per pregare nella Cappella che ti abbraccia appena si salgono le scale.

Oggi, nella Casa, gli ospiti sono Fabjan, 19 anni, con la sua bella sedia a rotelle e il suo mondo impenetrabile; Pashk, il piccolo di casa, 10 anni da poco compiuti, che con uno sguardo ti dice tutto, anche lui incardinato alla sedia a rotelle; Regina, una ragazza dolce e sensibile che ama le canzoni di Gabbani; infine tre nonne anche se io ho conosciuto solo Dila e Lena, diversissime e speciali.

Nei giorni in cui l’ho frequentata, mi hanno accolta suor Rita e la volontaria modenese Eleonora ed è stata soprattutto quest’ultima che mi ha aiutata a catapultarmi in questa realtà fatta di sveglie molto mattutine, caffè al volo, cambi di pannolini, lavaggi fatti al letto, vestiti da cambiare, cipolle da affettare, verdure da cucinare, pappine da frullare, medicine, stoviglie da lavare e da asciugare, passeggiate complicate, nanne e risvegli, canzoni di Elizabeta Marku da ascoltare, lavatrici da mettere su e poi bucato da stendere e ritirare e stanze da rifare e ricominciare tutto da capo il nuovo giorno.

Nella casa, c’è il ricordo anche di tutte le persone che ci sono passate negli anni, dai volontari alle suore, dai sacerdoti ai vescovi, dai viaggiatori ai turisti, fino ad arrivare agli ospiti volati in cielo prima del tempo che sembrano ancora vivere in quelle stanze. Le pareti sono piene di foto che raccontano dieci anni di un piccolo miracolo, di vite passate e rimaste, di giorni vissuti nella semplicità e nella speranza.

Regina è la “donna dell’attesa” diceva Eleonora: la sua vita è scandita dal conto dei giorni che mancano ad un evento che può essere il suo onomastico o il suo compleanno o la festa del suo paese o Natale. Quando sono stata lì si faceva il conto per questo giorno, 5 settembre, perché ci sarebbe stata la messa e la festa con tante persone che sarebbero venute a trovarli e a ricordare insieme quel giorno in cui lei, Regina in persona, aveva avuto l’onore e la gioia di tagliare il nastro dell’inaugurazione della casa. Ho visto le foto, ho visto i volti e i sorrisi di quel giorno di 10 anni fa e oggi ho pensato tanto a loro e immaginato l’emozione di Regina, di suor Rita e suor Maria e di tutti i loro sostenitori.

Non so dire con le parole perché questa è una storia speciale anche se semplice. Forse perché nessuno direbbe che quella casa sprizza vita da tutti i muri e la sa contagiare.

Se è vero che, come diceva don Tonino, “Attendere vuol dire sperimentare il gusto di vivere“, allora quella Casa è la Casa della Vita per eccellenza: è la vita delle attese di Regina per le feste, è la vita di Pashk che attende di uscire per fare la passeggiata, è la vita di Fabjan che aspetta solo di abbracciarti, è la vita di Pjetrit che continua a sorridere dalle fotografie, è la vita di suor Rita e suor Maria che indossano il grembiule ogni giorno e anche se si stancano di servire, non te lo dimostrano.

Auguri, Casa della Carità, per questi anni trascorsi e per quelli che verranno in cui forse passerò anche io qualche altra volta.

Accantitudine

“Accantitudine é l’abituine a restare accanto e dentro le cose, accanto e dentro le persone, accanto e dentro la realtà che ci circonda”.

Così la mamma spiega ad Hànifa il significato di questa parola nuova che la bimba ha appreso a scuola quella mattina e la riempie di gioia, ma anche di tante domande.

Non vado avanti con lo spoiler perché “Accantitudine” va letto più di una volta, non solo con la testa, ma anche con gli occhi, va accarezzato con le mani, va abbracciato quando lo si finisce.

Non è un albo (solo) per bambini: è un libro per gli adulti che mi ha stupito fin da subito, alla presentazione a cui ho assistito, così curata nei particolari, intima e coinvolgente.

Quando l’ho terminato la prima volta mi son detta: forse l’accantitudine è quella che viene chiamata “empatia” nei libri di psicologia e pedagogia dei grandi, ma c’era qualcosa che non mi tornava. Così l’ho ripreso tra le mani e l’ho riletto, parola per parola, immagine dopo immagine, per cercare di capirci qualcosa in più.

“Accantitudine” è stare non solo accanto e dentro le persone, ma anche accanto e dentro le cose, accanto e dentro la realtà che ci circonda, mi ripeto.

E’, soprattutto, l’abitudine ad assumere quelle posizioni “accanto” e “dentro”, a volte con le parole, a volte con il silenzio, a volte con uno sguardo, a volte con un abbraccio.

E’ sentire ed essere in SINTONIA con la creazione, è riuscire a sentirsi parte di tutto, per diventare ed essere persone migliori.

Grazie Emanuela Maldarella e Marisa Valente per questo albo che mi ha rapita e stupita.

Grazie Nicoletta de Candia per le illustrazioni bellissime che parlano a volte più delle parole.

MI aspetto adesso qualche avventura della piccola Hànifa, altre piccole storie in cui mette alla prova la sua voglia di accantitudine…per mettere alla prova anche la mia.

La penna rosa

Anche quest’anno scolastico sta finendo…Non mi par vero.

E’ stato un anno difficile e faticoso per me e la mia scuola: il covid, i docenti specializzati da sostituire, i ragazzi per i quali trovare le supplenze, le disposizioni (le fantastiche D) da inserire nell’orario, i cambiamenti di orario fatti fino a mezzanotte, i colleghi che ti chiamano e ti scrivono in ogni momento della giornata, anche la domenica, le attese infinite davanti alla porta del preside il sabato.

Gli episodi dolorosi, i cambi di nome, le sospensioni, le note disciplinari e i consigli straordinari, la didattica a distanza fatta nel corridoio nei mesi più freddi dell’anno, lo zaino pesantissimo e il mal di schiena, i collegi docenti in presenza in piena emergenza covid con 170 persone, i treni cancellati, il PON di matematica nei caldi pomeriggi di aprile, i colleghi che si trasferiscono e che so già che mi mancheranno.

Ma anche le cose belle non sono mancate: le amicizie nate in treno all’improvviso che mi hanno dato la gioia di svegliarmi alle 5.20, le colazioni al bar del sabato mattina, le risate con i ragazzi, le lezioni di italiano, storia e matematica fatte on line nel pomeriggio, i cuori mandati via whatsapp, la collega/sorella con cui prendere il caffè nella pausa, le “mila” imitazioni di colleghi e studenti.

E poi quelle cose che non ti aspetti: le supplenze dei ragazzi che non possono essere lasciati soli. Le ho accolte con un po’ di timore perché non sapevo se sarei stata all’altezza. Invece poi ti rendi conto che non è difficile entrare in contatto con loro; devi solo essere disponibile al contatto o all’ascolto, devi sapere “macinare” chilometri su e giù per la scuola, devi fare il pieno di pazienza e parlare di circo per ore intere o ascoltare la canzone dell’arrivederci dell’orso o di Michael Bublé, o inventare tabelle di giochi come le carte di Yu-Gi-OH!, oppure rispondere alle stesse domande in loop o chiedere dove sta Rossana Pinto, o dire che M. è diventato un ragazzo grande.

L’autismo: un mondo a parte davvero, ma un mondo speciale da conoscere, da frequentare, da vivere, per arricchirsi, per interrogarsi, per scoprire che la diversità è una ricchezza, che il mondo è un posto migliore con tutti i suoi colori e che, se si cammina insieme, anche la strada più difficile un po’ alla volta si percorre e non sembra tanto dura.

Alla fine, quando si è stanchi e non si vede l’ora di finire tutto, arriva quel regalo che non ti aspetti: una penna rosa da parte di G. che è andato in vacanza con la famiglia e ha pensato anche a me. Me la da senza guardarmi, quasi con imbarazzo e poi via ancora con le domande e le frasi sentenza: oggi perdi il treno, magari.

Ebbene, no, Gianluca. Non ho mai perso il treno quest’anno e l’ho fatto anche per non perdere la scommessa con te.

Ci vediamo l’anno prossimo.

Ricordi d’estate

Se chiudo gli occhi ripensando all’estate passata, rivedo soprattutto gli intesi giorni trascorsi in Albania nel mese di agosto.

Rivedo la bellezza dei suoi paesaggi, il lago di Scutari, i tramonti di Shiroke, le colline della Zadrima.

Mi risuonano nelle orecchie il canto delle cicale, i versi degli uccelli al tramonto, il suono delle campane e il canto del muezzin che richiamano i fedeli alla preghiera.

Risento sulla mia pelle il caldo sole ferragostano, ma anche la brezza del vento sulle colline e quello che mi scompigliava i capelli sulla vespa di fra’ Gjon che mi portava in giro per la città di Scutari a scoprire le periferie e gli angoli dimenticati della città.

Ma, soprattutto, rivedo i volti, gli occhi, i sorrisi delle tante persone che ho incontrato.

Rivedo, in modo particolare, i giovanissimi dei villaggi guidati dai miei amici frati impegnati nel minicampo postcresima a Tarabosh. Un gruppo di ragazzi molto affiatati, felici di trascorrere quei tre giorni insieme in allegria per divertirsi, ma anche per riflettere su se stessi e sulla loro chiamata.

Durante il loro ultimo giorno di campo, hanno animato un giornata di giochi con i piccoli magjype del quaritere rom ai piedi del convento che frequentano la scuola Beato Zeferino dei frati.

Quanti bambini nuovi vedo per la prima volta! Volti diversi ma stessa vitalità, stessa energia, stessi occhi colorati, stesse grida. Quel giorno caldo di agosto risuona di grida e risate, di canzoni e balli nella scuola di Tarabosh; quel giorno si riempie di amicizia e gioia, si annullano le differenze sociali e non è la prima volta che accade.

Lì il tempo sembra essersi fermato: gli anni passano, l’Albania cambia, si costruiscono strade, arrivano i turisti, ma il quartiere magjype è sempre lì con qualche mattone in più e con l’umanità più disparata.

La scuola dei frati è ormai maggiorenne: è un esperimento, un sogno realizzato dove volontari cattolici e musulmani collaborano con un solo fine: cercare di migliorare la vita dei bambini e dei ragazzi con l’istruzione.

Le classi sono semplici bungalow di legno, i banchi sono piccoli e vicinissimi, gli studenti spesso dividono sedie e materiale scolastico ma sono comunque lì, seduti a imparare, scrivere, leggere. Chissà se fra’ Bonaventura, quando l’ha pensata, l’aveva immaginata così: un luogo di incontro in cui anche i maestri imparano, in cui anche i grandi ascoltano i piccoli, in cui ritorna al primo posto la persona indipendentemente dalla sua origine e dalla sua cultura.

Questa scuola è il simbolo dell’impegno dei frati in Albania, del loro amore per l’uomo indipendentemente dal credo religioso, dell’importanza del servizio al povero, della loro presenza nelle periferie del mondo, senza chiedere nulla in cambio.

Mi mancherà

“Non vedo l’ora di tornare a casa”.

Spesso ho ripetuto questa frase negli ultimi tempi, sia a voce alta che nei miei pensieri.

Eppure mi sono trovata subito bene nella casa che mi ha accolta 4 mesi fa, in questa abitazione anni ‘70 tanto simile alla casa dei miei genitori, che ora è casa mia.

Mi sono poi subito adeguata alla situazione da “gitana” vissuta in questa estate 2021, sempre con una valigia o uno zaino, pronta a spostarmi da una parte all’altra del paese e anche in Albania.

Ma ogni tanto mi mancava il mio quartiere, mi mancava il mio balcone e le lunghe letture sotto il sole della controra, mi mancavano la mia cucina, i miei cassetti, la lavatrice, il forno dei miei dolci, la mia stanza.

Non vedevo l’ora di tornare a casa quindi ma, ora che questo momento si avvicina, io mi sento un po’ strana.

Non pensavo, infatti, di riuscire ad affezionarmi a questa casa prestata, a questa stanza dove faccio tutto e vivo, dove dormo, mangio, studio, stiro, faccio incontri on line, guardo la tv, progetto.

Queste ultime mattine, quasi non voglio alzarmi dal letto perché mi sento protetta da queste quattro mura che conosco ormai bene e quando penso alla mia casa ormai diversa da quella che ho lasciato, quasi ho paura.

E’ troppo grande, senza mobili, senza i cassetti dove poggiare le cose, senza i chiodi alle pareti per appendere i quadretti e le foto della mia vita.

So che mi ci vorrà poco a riabituarmi e che riamerò la mia casa e ci costruirò nuovi ricordi.

Ma al momento, mi guardo intorno e sento che mi mancherà questo tetto dove ho imparato a vivere con pochi vestiti e poche cose che erano pure troppe. Ricorderò con un sorriso il venerdì sera in cui ho scoperto uno storno finito nel camino che tanto mi ha spaventata, ma a cui siamo riusciti a restituire la libertà. Mi mancherà forse anche “l’odore” della cipolla soffritta che mi svegliava alle 6.30 della domenica e preannunciava il ragù di pranzi familiari; forse mi mancherà anche il pianto quotidiano della bimba che probabilmente non voleva dormire il pomeriggio; sicuramente mi mancherà la mia vicina di casa che mi ha fatto rivivere con il suo sorriso il ricordo di suo figlio, mio amico, che purtroppo non c’è più. Mi mancheranno anche le urla dei ragazzi che giocano a pallone al parco anche con 40 gradi e, soprattutto, mi mancheranno le albe autunnali di questi giorni che riesco a vedere dal balcone, con il cielo che piano piano si colora di rosa e di rosso e il sole che sorge dal mare e si sposta velocemente donandomi un mattino pieno di speranza.

In questa casa ho imparato tanto: soprattutto mi ha fatto riflettere su quanto sia importante una casa per la dignità di una persona e per questo non finirò mai di ringraziare i genitori del mio amico Franco che me l’hanno prestata senza nemmeno conoscermi bene, con la convinzione che è a disposizione di chi ne ha bisogno, al momento.

Perché in fondo è vero quello che diceva James Joyce: “Quando tu hai una cosa, questa può esserti tolta. Ma quando la dai, nessun ladro te la può rubare. E allora sarà tua per sempre.”

Non sarà difficile se…

Ricordo bene il giorno in cui Maria Rosaria ci avrebbe assegnato “il caso”. Ero molto preoccupata. Tornavo sul sostegno dopo un anno e sapevo che poteva capitarmi di tutto. Mille domande si agitavano nel mio cuore: sarei stata all’altezza? Sarei riuscita ad aiutare la persona che mi avrebbero affidato? Ce l’avrei fatta?

Alla fine arriva il mio nome e poi quello dello studente e la sua classe.

Lo scrivo sull’agenda: G. D. 1^ I.

E subito dopo prendo il suo fascicolo personale e leggo la sua storia. Mi appunto dati, date, termini tecnici. Cerco di immaginare una vita, dei volti, delle storie e di pensare a cosa potrei fare. Poi arriva Maria Rosaria, prende il fascicolo, legge brevemente e me lo restituisce dicendo: non sarà difficile.

Eppure l’ansia e l’emozione mi divorano il primo giorno di scuola: nuovo l’istituto, nuovi i colleghi, nuova la classe. Sto attenta ad individuare il mio studente durante l’appello e con amarezza scopro che non c’è. Già penso al peggio: sarà un ragazzo che si assenta spesso, devo andare a segnalarmi per le supplenze.

E invece, dopo mezz’ora, il bidello bussa alla porta, apriamo e arriva lui con un sorriso e una voce indimenticabile che dice: Eccomi qui!

Allora ho ripensato alle parole di Maria Rosaria: non sarà difficile.

Sì, penso, non sarà difficile se il suo sorriso mi farà sorridere come è avvenuto quel giorno.

E così in fondo è stato: ci siamo conosciuti piano, un po’ alla volta si è fatto abbracciare e alla fine del quinto anno era lui che cercava il mio abbraccio prima di ogni cosa.

Sono stata con lui 5 anni quando invece sarei dovuta rimanere solo uno. Lui non sa che ha cambiato il corso della mia vita.

Invece io lo so quando è successo: era un giorno di maggio di quel primo anno, eravamo allo stadio di Andria per una festa dello sport e lì lui tirò una pallina in una gara ed esultò come se avesse ottenuto il record del mondo. Il suo sorriso, la sua esultanza, aprirono una porta nel mio animo e nella mia mente. Mi sentii felice per lui e per me e capii che volevo continuare a essere la sua insegnante.

Stanotte, alla vigilia dell’inizio di un nuovo anno scolastico, ho sognato il mio G. D. Nel sogno gli insegnavo a fare le foto con una reflex.

Invece adesso lui è grande e io ho altri studenti da seguire. Ma il mio stato d’animo è lo stesso di quel primo anno. Sempre il timore di non essere accettata, di non riuscire a fare le cose bene, di stare bene con i ragazzi e i colleghi.

Ma un insegnante sa che non può fermarsi e così ho cominciato anche io un nuovo anno con tanti nuovi colleghi, tante aspettative e anche tante speranze.

Buon anno a tutti i ragazzi, alle famiglie e a tutti i docenti allora, ma soprattutto a quelli di sostegno a cui auguro di ricevere e donare tanti sorrisi speciali.